“Italy: the new domestic landscape”
Lo sviluppo della disciplina del Design non ha mai seguito una linea retta e non può farlo perché legato allo sviluppo delle società, delle tecnologie, alla cultura e a tanti altri elementi che, lateralmente, interagiscono con esso. Questo movimento fluido ha incontrato, nella storia, dei momenti che sono diventati dei punti saldi, momenti importanti dai quali diversi scenari si sarebbero potuti aprire o chiudere, a seconda delle scelte che si sarebbero fatte da quel momento in poi.
Uno di questi “momenti” è avvenuto esattamente 50 anni fa, a New York e ritengo che questo episodio sia un elemento cardine nella storia del Design, anche se spesso sottovalutato. Questo è il motivo per cui oggi, nella data di inaugurazione dell’evento, penso che sia il caso di parlare in maniera approfondita e critica di quello che successe e di cosa è significato per lo sviluppo della disciplina del Design.
L’evento a cui faccio riferimento è l’esposizione tenutasi al MoMa di New York dal 26 maggio all’11 settembre 1972, intitolata “Italy, the new domestic landscape”, a cui furono invitati a partecipare i grandi nomi del Design italiano e l’avanguardia della ricerca italiana per confrontarsi sulle loro personali visioni del Design a sul suo ruolo nella società, usando come focus l’ambiente domestico e le sue prefigurazioni future.
Il Museum of Modern Art (MoMA), nel 1932, per volontà del suo primo direttore A.H. Barr, istituì il Dipartimento di Architettura, con l’idea che i significati impliciti nei lavori di Architettura e Design sarebbero dovuti essere investigati e valutati come quelli dei lavori di Pittura e Scultura, assicurando, così, un posto d’onore a queste discipline e attribuendo loro il giusto valore socio-culturale.
Nel 1972 a dirigere il Dipartimento di Architettura era l’architetto e designer argentino Emilio Ambasz, il quale si impegnò in un compito nient’affatto semplice visto il dibattito che si stava sviluppando, in quel periodo, intorno al Design e alle sue implicazioni nello sviluppo della società. Già nella prefazione al catalogo della mostra, Ambasz espone un concetto che ricorda molto da vicino quello espresso da Argan a riguardo della differenza di approccio di Gropius alle teorie del Movimento Moderno (“Walter Gropius e la Bauhaus”) e manifesta la complessità del periodo storico che stavano vivendo e la sua potenziale ricchezza di scenari dicendo:
”È stato un presupposto di lunga data del movimento moderno che se tutti i prodotti dell’uomo fossero ben progettati, l’armonia e la gioia emergerebbero eternamente trionfanti. Molti segnali provenienti da diverse fonti stanno rendendo evidente che, sebbene un buon design sia una condizione necessaria, non è di per sé sufficiente ad assicurare la soluzione automatica di tutti i problemi che precedono la sua creazione e di quelli che possono sorgere da essa. Di conseguenza, molti designer stanno espandendo la loro tradizionale attenzione per l’estetica dell’oggetto per abbracciare anche una attenzione per l’estetica degli usi a cui l’oggetto sarà destinato. Così, l’oggetto non è più concepito come un’entità isolata, sufficiente a se stessa, ma piuttosto come parte integrante del più ampio ambiente naturale e socio-culturale. Questo fenomeno sta interessando i designer di tutto il mondo, ma da nessuna parte la situazione è così complessa, così ben cristallizzata e così ricca di esempi come in Italia”.
Quando si accinse a preparare questa mostra Ambasz (tra la fine del 1970 e l’inizio del ‘71) non era a conoscenza di quello che si stava sviluppando in Italia e approcciò al suo viaggio “con un’idea molto semplice, ignorando completamente le questioni italiane, affascinato dal design italiano e dai suoi prodotti; pensai, semplicemente, di andare lì, mettere insieme bellissimi oggetti e portarli all’esposizione. Solo quando arrivai in Italia mi resi conto della reale complessità della questione, del grande numero di controversie, della presenza di un cospicuo numero di designer convinti del fatto che, finché non fossero cambiate le condizioni sociali e politiche, nessun progetto poteva essere sviluppato. Proprio come gli altri designer, si confrontavano con la progettazione di prodotti ma rendendosi conto che quella non era la scala con cui avrebbero voluto confrontarsi, bensì una scala molto più ampia, ambientale”.
Ambasz, grazie al supporto di Inge Feltrinelli e di Tomás Maldonado – che lo accompagnarono nel suo viaggio di scoperta della scena milanese del Design italiano – aveva conosciuto, oltre ai grandi maestri del design italiano, gruppi di giovani designer che si identificavano nella filosofia del “Radical Design”. Un gruppo di importanti figure della scena progettuale di quel periodo che si “opponeva” al design.
La stampa americana presentò la discussione critica trovata in Italia sottolineando la presenza di questi due schieramenti: da un lato chi diceva che niente deve essere aggiunto se prima non si procede con un cambiamento politico-sociale che produrrà una trasformazione nell’aspetto fisico degli ambienti e degli elementi in essi contenuti; dall’altro quelli a favore della produzione (del buon design, n.d.a.) in quanto questa può cambiare la qualità della vita migliorando l’ambiente fisico.
Ambasz, dunque, di fronte e questi conflitti decide di non annullarli, anzi, definisce l’Italia come un micro-modello dove sono presenti una larga serie di possibilità, limitazioni e problemi critici del design contemporaneo. La sua idea, nella strutturazione della mostra, è di dividere i designer in tre diversi gruppi: i conformisti, i riformisti e i contestatori.
Tra i conformisti inserisce coloro i quali concepiscono i loro lavori come elementi autonomi, responsabili solo di se stessi e che non si immischiano in questioni socio-culturali, ma continuano a ridefinire forme e funzioni già note. Caratteristiche principali di questo primo gruppo sono l’uso massiccio del colore e l’utilizzo creativo dei nuovi materiali sintetici, con le rispettive tecniche di stampaggio. I lavori dei designer conformisti, nella definizione di Ambasz, esplorano le qualità estetiche degli oggetti che assolvono ai bisogni tradizionali della vita domestica.
I riformisti sono, secondo Ambasz, motivati da una profonda preoccupazione per il ruolo dei designer in una società consumistica. Formati per progettare oggetti e sentendosi incapaci di far conciliare il conflitto tra le loro preoccupazioni sociali e il loro lavoro, sviluppano una modalità retorica di progettazione per far fronte a queste contraddizioni. Convinti del fatto che non possa esserci un cambiamento del Design prima di cambiamenti strutturali della società, non inventano nuove forme ma si impegnano in una operazione retorica di riprogettazione di oggetti tradizionali “con nuovi, ironici e, a volte, auto-ironici riferimenti socio-culturali ed estetici”, stimolando una discussione sul ruolo che questi oggetti hanno nella società stessa. Alcuni di loro progettano oggetti deliberatamente kitsch per snobbare quei prodotti creati per soddisfare il desiderio di rappresentare uno status sociale; altri, prendendo elementi dalla Pop Art, adottano forme prese dalla produzione umana e li elaborano in una scala diversa. Altri ancora costruiscono oggetti usando elementi industriali recuperati in un’azione di riciclo, evitando così il proliferare di nuove produzioni; riconoscendo il fatto che spesso gli oggetti sono dei feticci per la nostra società, alcuni designer attribuiscono ai loro oggetti una qualità esplicitamente rituale, trasformando gli oggetti in sculture concepite come altari per i rituali domestici. Infine, in una azione di rottura con il funzionalismo, alcuni producono oggetti la cui funzione non si legga dalla loro forma, distruggendo il famoso concetto “form follows function” di Sullivan.
Naturalmente la differenza tra questi due gruppi non è sempre così chiara, come sottolinea anche Ambasz, e questa oscillazione è parte dei paradossi e delle contraddizioni di quel periodo storico, sospeso tra la critica al consumismo e la prospettiva di un futuro tecnologico.
Il terzo approccio, dei contestatori, si divide in due pensieri principali: il primo è di completo rifiuto di aderire al sistema socio-industriale e, quindi, si impongono di non fare oggetti ma di limitarsi ad un’azione politica e filosofica; la seconda tendenza condivide con la prima la convinzione che un oggetto non possa essere progettato come singolo elemento, senza nessun riguardo al suo contesto socio-culturale, ma non si impongono una astensione asettica dal progetto, bensì una critica partecipazione. Questi designer iniziano a pensare agli oggetti come un sistema di processi, di relazioni con l’utente che risultano sempre in cambiamento, aggiungendo alla tradizionale attenzione all’estetica una attenzione all’uso che si fa dell’oggetto. Un approccio olistico che si manifesta, formalmente, in oggetti flessibili nella loro funzione, oggetti che permettono diversi modi d’uso, rifiutando di adottare una forma definita o diventare riferimento, stimolando la personalità dell’utente e la relazione con l’ambiente e con gli altri, capaci di creare interazioni sociali o fornire privacy quando necessario.
La mostra, oltre ad accogliere gli oggetti, facenti riferimento ai tre gruppi elencati, si proponeva di analizzare la visione dei designer italiani rispetto all’ambiente domestico, allo scopo di usare questa piccola dimensione ambientale come laboratorio di ricerca sulle possibili prefigurazioni del futuro. Per questo motivo fu chiesto ai progettisti di sviluppare e realizzare degli ambienti domestici con la richiesta di esplorare con particolare attenzione agli elementi che lo compongono, definire gli spazi e gli oggetti che gli danno forma, le cerimonie e i comportamenti che gli danno significato e proiettarli in un periodo futuro. Un ulteriore focus fu posto sulla necessità di spazio dell’individuo, sia in una condizione flessibile che statica dello spazio, in cui tutti i tipi di relazione si possano esprimere apertamente.
Naturalmente, a chi si rifiutava di progettare, Ambasz richiese un proprio punto di vista sull’ambiente domestico e sul futuro degli spazi abitativi.
Gli ambienti – progettati e realizzati in Italia, per poi essere trasferiti a New York – furono chiamati a rappresentare la casa stabile e l’unità mobile (tra queste ultime ricordiamo la Kar-a-Sutra di Mario Bellini che prefigurava un nomadismo della società e, per questo, lo spazio dell’auto diventava uno spazio da vivere appieno, precedendo di molti decenni tante concept car che, grazie alla guida autonoma che si sta sviluppando, rivedono gli spazi interni con sistemi configurabili). Il risultato permise: ai “contro-design” di raccontare la necessità di un cambio socio-politico a monte della progettazione di nuovi prodotti attraverso poster, opere e scritti che raccontassero questa necessità di cambiamento, e ai “pro-design”, nei sette ambienti a loro disposizione, di illustrare come un ambiente fatto di buoni progetti migliori la qualità della vita e indirizzi la società verso un cambiamento auspicato. Tra i progetti e i grandi nomi coinvolti ci tengo a citare l’ambiente prefigurato da Ugo La Pietra che ebbe un ruolo di ponte tra i pro e i contro, attraverso un uso più integrato e consapevole dei network di comunicazione (una visione oggi attualissima basato sulla iper-connessione, la video-comunicazione e tanti altri elementi che oggi fanno parte della nostra esistenza).
Pressoché la totalità delle critiche furono positive, a detta della stampa del tempo, e questo perché si trovò, in questo percorso, un momento di confronto e di discussione basato su una dialettica progettuale, capace di confrontarsi con una nuova realtà che stava nascendo e, soprattutto, riportò al centro della discussione il valore culturale della progettazione.
Le parole di Philip Johnson dopo aver visitato la mostra furono: “La mia impressione è che questo sia il primo movimento moderno dall’epoca del Bauhaus. […] È il primo movimento, in effetti, che fa sembrare la “Barcelona chair” di Mies van der Rohe non vecchia… ma come se fosse un classico”.
L’importanza che risiede in questo evento è identificabile, prima di tutto, nella riacquisita importanza del dibattito nell’ambito del Design, al di là della semplice estetica, un dibattito che stimola tanti designer e aziende e che coinvolge questioni etiche e socio-culturali, cercando di interrogarsi su cosa sarebbe potuto essere giusto fare per migliorare la società. In quei pochi mesi di esposizione, tutto il mondo non vide solo la già riconosciuta bellezza del Design Made in Italy ma capì che, in Italia, era attivo un confronto che generava proiezioni future, ragionamenti, nuovi prodotti e nuovi scenari, un fermento dialettico e progettuale che stimolò il design, non solo in Italia, per i successivi decenni.
Si iniziava a intuire, in questa mostra, l’importanza degli oggetti e delle relazioni e interazioni che questi hanno con gli altri oggetti e con le persone che li usano, una interazione capace di cambiare le nostre abitudini, di stimolare delle riflessioni e di sensibilizzare le persone indirizzandole verso nuovi scenari futuri. Questo stesso approccio lo ritroveremo, qualche anno più tardi, negli scritti di Lucius Burckhardt che sono stati poi raccolti nel libro “Design is invisible” e in cui si struttura il concetto di Socio Design.
Burckhardt, nei suoi scritti, descrive l’importanza di non limitarsi a raccontare il mondo che viviamo come un elenco di oggetti, architetture, infrastrutture e servizi, bensì a guardare alle relazioni e interazioni che questi generano, consapevoli del fatto che nessun progetto è neutrale e ognuno di questi, nel bene e nel male, cambia un po’ il mondo e lo indirizza in una determinata direzione.
Purtroppo ci fu anche qualcosa di negativo che si generò successivamente a questa mostra, dal nostro punto di vista, e fu il fraintendimento intorno alla figura del designer che si confuse con quella dell’artista fino a diventare una “star”, al di sopra di tutto, e, quindi, lontana dalle aziende. Tanti furono i fattori che generarono questa aberrazione del ruolo del designer rispetto alla società produttiva e culturale. A partire dall’auto-imposizione dell’evitare il progetto, ripiegando sulla rappresentazione spesso di tipo artistica, appunto, fino alla ricerca spasmodica di distruggere, a tutti i costi, i linguaggi precedenti, i fattori furono davvero tanti, difficilmente sintetizzabili e non tutti dipendenti dai designer. La parola “design”, infatti, iniziò a farsi strada nelle aziende e chi si occupava di vendite capì subito che fosse un ottimo motore per moltiplicare gli introiti. Però il “design” non poteva impegnare le persone comuni in ragionamenti troppo complessi o, addirittura, coinvolgerli in questioni politico-culturali; questo non sarebbe stato di facile gestione per chi si occupa di Marketing e, inoltre, avrebbe costretto le aziende ad esporsi rischiando di essere relegate in un determinato schieramento, perdendo pezzi di mercato. Per questo il “design” è stato depotenziato, alleggerito, riducendolo, nell’immaginario comune, solo qualcosa di strano, di creativo, disegnato da un designer/artista. La distanza che si generò fra i concetti più profondi e impegnativi del Design e i designer si tradusse in una distanza dalla società civile e dalle aziende, generando uno scollamento: da un lato il designer che non è più attento alla società e, men che meno, alle aziende, alla produzione e al mercato (che poi è la società, non dimentichiamolo); dall’altro l’azienda che non riconosce al designer il suo ruolo ma lo confonde con uno “strano personaggio” che non darà altro contributo all’azienda che delle “strane forme” e la possibilità di poter dire che l’azienda fa “design”.
Non vogliamo di certo generalizzare e riconosciamo l’impegno di aziende che nel Design hanno investito molto, ma sono poche rispetto all’apporto creativo che avrebbe potuto dare la strutturazione di un percorso “design oriented” e che dagli anni ‘70 avesse avuto maggiore attenzione alla formazione dei designer e delle aziende – nel senso della loro sensibilizzazione al Design. Un percorso che sarebbe stato di grande valore per tutta la società.
Quello che è successo, invece, è stata una chiusura di ciascuno nel proprio castello: dal lato della formazione, le scuole e gli enti di alta formazione – ciascuno convinto di essere migliore degli altri – hanno iniziato una competizione priva di qualsiasi momento di confronto, che, invece, si dimostrò così produttivo proprio nel periodo in cui Ambasz venne in Italia; dal lato della professione, i designer che hanno imboccato un percorso sempre più egocentrico in cui la firma deve avere molto più valore del progetto, riducendo i prodotti a esercizi di stile. L’importante è solo guadagnare di più (?).
L’esperienza della mostra del ‘72 al MoMA, dunque, ci lascia molte riflessioni su cui ritengo sia necessario soffermarsi. Prima di tutto su quanto si sarebbe potuto fare, da quel momento in poi, e su quanto realmente sia stato fatto. Ci sono stati – e ci saranno sempre – momenti, nella storia, in cui si sono concentrati tanti fattori pronti ad esplodere in qualcosa di nuovo e di grande, una sorta di big-bang culturale, che, però, non sempre sono stati sfruttati appieno, e questo è uno di quelli. Mi viene in mente un racconto di Calvino in cui, parlando metaforicamente di idee, descrive questi punti – o posti, o momenti – come:“...il luogo della molteplicità delle cose possibili. A volte io mi rappresento questa molteplicità concentrata in una risplendente spelonca sotterranea, a volte la vedo come un’esplosione che si irradia”, e noi eravamo lì, nel ‘72, in quel punto da cui tutto può diventare possibile. Stava nascendo, in quel periodo, un nuovo modo di guardare al Design e alla società, un nuovo paradigma si sarebbe potuto sviluppare grazie alle riflessioni di giovani e meno giovani designer e sarebbe potuto diventare motore di un nuovo approccio alla vita. Scenari futuri di condivisione, comunitari e aperti, rappresentanti quella fluidità a cui oggi siamo arrivati ma, purtroppo, senza cambiare molto di quella società che spinge al consumo e intorno a cui si accalcavano le riflessioni di quei giovani pensatori.
Il Design come strumento per modellare uno scenario futuro è completamente scomparso dai nostri radar, riducendosi al mero esercizio di stile o, quando va peggio, a schiavo della società consumistica. Una società a cui non interessa l’innovazione quanto lo sfruttamento di un mercato, in cui è più importante il profitto del messaggio e in cui è sempre più difficile confrontarsi apertamente sui propri pensieri per il futuro. Siamo tutti troppo impegnati a lavorare per guadagnare e spendere, il più presto possibile, quello che abbiamo per poi riprendere con il giro, come fossimo criceti in una ruota che promette di portarci in posti bellissimi ma, invece, è sempre ferma lì, nella nostra gabbia.
L’elemento estremamente importante che abbiamo perso, da quella mostra ad oggi, è la consapevolezza che ogni designer dovrebbe avere sul fatto che il Design ha influenza sulla società e, quindi, dovremmo iniziare a ragionare su come i prodotti possano sensibilizzare le persone o, addirittura, indirizzarci tutti verso nuovi scenari futuri, assumendoci le nostre responsabilità di progettisti per qualsiasi cosa saremo chiamati a progettare. Non possiamo guardare solo al nostro ego e alle nostre economie, il Design ha un ruolo nella formazione delle coscienze delle persone, o almeno potrebbe averlo, ma ce ne stiamo lavando le mani. Forse per una sensazione di impotenza di fronte a dinamiche molto più grandi della singola persona; ma se in questo ragionamento si riuscisse a coinvolgere la comunità dei designer, delle aziende produttrici, fino ad arrivare alla politica, allora non sarebbe più così spaventoso doversi confrontare con questi elementi.
Sono convinto che il design debba tornare ad avere un valore socio-culturale, oltre che economico, perché la mancanza di questo fattore sta riducendo i designer a schiavi delle tendenze e del mercato e le persone a meri consumatori di merci, spinti dalla pubblicità verso una bulimia consumistica, sottraendogli un ruolo attivo all’interno di una economia fatta di prodotti e servizi; quel ruolo attivo che è necessario per avere coscienza di quello che succede e poter essere sensibili a tematiche fondamentali per il nostro sistema ecologico globale.
Dal 1972 sono passati 50 anni, la sensibilità verso temi di importanza globale è aumentata e, forse, è il momento di riprendere quelle discussioni sul ruolo della progettazione nella società, ora che viviamo in un ambiente per la maggior parte progettato. Quale sarà il ruolo del Design nel nostro futuro? Resterà un mero strumento finalizzato alla vendita o si riprenderà una discussione sui valori socio-culturali e fondanti di questa disciplina?
Nel 1972 ci fu un altro importantissimo evento che iniziò a portare l’attenzione dell’umanità su un tema fondamentale per la sua sopravvivenza: la sostenibilità. La coincidenza di questi due eventi riporta la mia mente al “ luogo della molteplicità delle cose possibili” che si generò in quegli anni…ma di questo secondo evento parlerò nel prossimo articolo.
Articolo di Angelo Bucci
MoMA
Italy: The New Domestic Landscape
https://www.moma.org/calendar/exhibitions/1783