Written by 12:53 Design, Sap!ens

Il valore (economico) del progetto

Da troppo tempo, ormai, dobbiamo confrontarci con committenti che non capiscono quale sia il reale valore della progettazione.
A cosa è dovuto questo atteggiamento verso i progettisti?

Da troppo tempo, ormai, dobbiamo confrontarci con committenti che non capiscono quale sia il reale valore della progettazione.
A cosa è dovuto questo atteggiamento verso i progettisti?

Non voglio dare facili soluzioni a questa questione, ma credo che, volendo indagare le radici della situazione attuale, dovremmo tutti, in maniera critica, guardare a quello che è successo dagli anni ’60 ad oggi. Il progettista, negli anni ’50 e ’60, aveva una posizione di tutto rispetto che è andata via via degradandosi a causa del repentino aumento del “pressapochismo” dei progettisti stessi. Abbiamo, infatti, assistito alla completa distruzione della cultura progettuale attraverso la demolizione sistematica delle sturtture formative, abbiamo accettato l’appiattimento culturale senza contrapporvi una sana ricerca critica che avrebbe potuto ridare alla progettazione, il giusto valore. Ci siamo allineati, insomma, avendo come riferimento una asticella troppo bassa, così bassa che molti progetti e molti progettisti non erano definibili tali, ma semplici disegnatori, che hanno iniziato a svalutare i progetti. Questa svalutazione culturale (faccio questo perché è carino o perché va di moda) ha portato ad una successiva percezione errata da parte dei committenti.

Se le motivazioni che un progettista porta sono motivazioni o ricerche “esili”, informazioni cui tutti possono accedere, perché dovrei chiamare un progettista o pagargli quanto chiede? Se le scelte sono guidate solo dalla moda del momento o da un gusto mio o del committente, questo si sentirà nel giusto quando mi chiderà di “fargli un disegnino”!

A questa visione si affianca, a mio parere, il disfacimento degli enti di formazione che, alla ricerca di sacri Graal e di teorie universali, hanno completamente distolto gli allievi dal vero valore culturale del progetto, evitando sperimentazioni ed assoggettandoli a vecchie teorie progettuali, ottenendo un doppio risultato negativo: progetti che richiamavano stili o altri progetti (stilismo) e l’incapacità dei nuovi progettisti di sviluppare una propria capacità di discernimanto sullo stato dell’arte e della cultura.

Non faccio di certo di tutta l’erba un fascio, ma, se considerate il numero di architetti e designer che ogni anno si laureano o si formano nelle strutture italiane e provate ad immaginare quanti di questi fanno davvero il lavoro del progettista, inteso anche come ricercatore, come cultore della materia e del progetto, vi renderete facilmente conto che rimane un numero esiguo di “geniali pazzi” che, grazie ad una enorme passione, riescono a portare avanti il loro percorso a volte fregandosene di tutto il resto.

Non ci sono facili soluzioni, come stavo dicendo, ma, di certo, dovremmo ricominciare a dare più spazio a chi studia progettazione, mettendoci accanto a loro, senza spingerli sui nostri binari, ma lasciandoli liberi di confrontarsi tra loro e con chi già da tempo lavora nel campo, ma in un confronto equo, capace di stimolare una nuova visione e quindi un nuovo valore del progetto, che sia più vicino all’oggi che a “ieri”, fino a farlo protendere verso il domani.

Solo dopo che i progettisti capiranno quanta importanza riveste il buon progetto nella società e quanta cura e dedizione ci vuole per redigerlo, si potrà ripalare del valore del progetto e del rapporto con la committenza.

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